La via d’uscita

via d'uscitaL’elezione del Presidente della Repubblica ha dimostrato l’assoluta inadeguatezza della classe dirigente del Pd e di Bersani. Ne avevo apprezzato il sacrificio dopo il voto. Con l’esito disastroso dell’operazione Marini e la deflagrazione del Pd Bersani (ma anche D’Alema, Veltroni e tutta l’allegra compagnia del “tortellino magico”) dovrebbe velocemente accomodarsi alla porta. Certo: c’è chi dice che era tutto calcolato, Marini da bruciare per spianare la strada a Prodi. Anche se un calcolo del genere ci fosse stato, certo non avevano messo in conto le rivolte, le sedi occupate, il mail bombing sui parlamentari.. E’ cambiata la politica e loro sono ormai inadeguati.

Dopo tante polemiche con Grillo e con Renzi, devo ammettere con onestà intellettuale che ambedue hanno tenuto il punto (più il primo che il secondo). Renzi ha dimostrato che la critica all’establishment Pd non è solo un fatto d’età. Soprattutto bisogna dire che se non fosse stato per Grillo e il Movimento 5 Stelle nessun cambiamento sarebbe mai stato possibile in questo paese. L’indicazione di Rodotà è stata  di grande spessore e ha salvato la dignità della sinistra ben al di là di quanto un miserabile ceto politico di presunta sinistra sia stato in grado di fare.

Quello che mi spaventa di quel ceto politico è la sua mediocrità e l’incapacità di analisi: nessun parlamentare del Pd ha espresso una critica politicamente fondata su Rodotà.
Nè tantomeno Bersani, nè alcun altro maggiorente del Pd  sono mai entrati nel merito della sua candidatura: l’unico loro problema è che doveva salire al colle un “PD”. Punto.
Detto che Rodotà è stato eletto in svariate legislature come “indipendente di sinistra”, arrivando anche a essere presidente del Pds quando cercavano una figura di chiara matrice di sinistra (ma super partes), detto che ha un curriculum istituzionale (e internazionale..) di prim’ordine, analizziamo il non detto:
Rodotà è laico e quindi è sgradito alla componente cattocomunista del Pd attenta alle reazioni della Cei e del Vaticano
Rodotà è di cultura socialista (quella vera) ed è sgradito alla componente neoliberista del Pd
Rodotà sarebbe un garante integerrimo della Costituzione. Forse troppo..
Rodotà non è disponibile a dare garanzie in bianco a Berlusconi
Rodotà non fa parte dell’apparato e quindi non è condizionabile
Rodotà non ha mai governato e quindi non ha scheletri nell’armadio da tirare in ballo al momento opportuno
Rodotà è stato messo nella lista da Grillo e quindi agevolerebbe un governo di cambiamento. Quello vero..
Rodotà è stato indicato dal movimento 5 stelle quindi non dovrebbe “gratitudine” ai grandi elettori del Pd
Rodotà non ha alleati in nessuna corrente del Pd
Rodotà ha sempre esercitato un ruolo da “garante” quindi è inviso alle lobbies economiche
Rodotà è uno spirito libero e indipendente

Dunque sarebbe stato un ottimo candidato per un partito laico e di sinistra. Ma evidentemente non per il Pd..
La scelta di Prodi come extrema ratio del Pd è comprensibile: avevano i forconi del loro popolo attaccati al culo e le sedi occupate, dovevano in qualche modo dare una risposta. Al di là della persona di Prodi, (che apprezzo) la scelta non mi soddisfa politicamente per due motivi:
1) Se vuoi veramente archiviare Berlusconi, il berlusconismo e il passato ventennio devi gioco forza archiviare anche il suo principale antagonista: Romano Prodi.
2) Aldilà di quello che pensa Berlusconi e suoi sodali (di cui mi frega meno di zero) per larga parte del popolo del centrodestra Prodi sarà sempre un nemico, una persona che non stimano e che detestano. E questo non è un bene perchè in fondo in fondo terrà vivo il berlusconismo ben al di là delle sorti di Berlusconi medesimo.

Ma in politica si ragiona su quel che c’è, non su quel che si vorrebbe. E adesso il Pd e Sel dalla quarta si ricompatteranno su Prodi, con insidie e possibili esiti. Vediamoli:
Pd+Sel hanno poco più di 490 voti e ne servono 504. Non mancheranno però i franchi tiratori, quelli col dente avvelenato per la vicenda Marini, difficile ipotizzare quanti saranno. In ogni caso servono voti: Monti non li garantirà da subito per tenersi le mani libere. Potrebbe garantirli l’M5S. In che modo? E’ possibile che di fronte alla candidatura Prodi, col rischio di un fallimento che riporterebbe in auge le “larghe intese” lo stesso Rodotà faccia un passo indietro spianando la strada a Grillo e ai suoi per un appoggio a Prodi (che è tra i candidati..).
Poi magari, chissà, (perchè no?) Prodi Presidente potrebbe dare a Rodotà un incarico per formare quel governo “di scopo” che eviti le urne a giugno…

Tra poche ore inizia la quarta votazione, staremo a vedere.
Per il momento buona giornata ( e come diceva Truman: anche buon pomeriggio, buonasera e buonanotte..)

Paolo Soglia

Il Renzi e l’uomo col sigaro

coraggio-calligrafia-simboloCome ampiamente previsto Bersani ha vinto il ballottaggio. Come un po’ meno previsto l’ha vinto alla grande, con ampio margine.
Cos’è successo tra il primo e il secondo turno? Che il Renzi ha sbagliato completamente strategia.

I risultati del primo turno erano chiari: il segretario PD, in vantaggio di 9 punti, aveva l’appoggio degli altri tre candidati e di una norma confusa e discutibile (ma votata anche da Renzi) che limitava fortemente l’afflusso di nuovi elettori. Quindi aveva già in tasca il ballottaggio.
Matteo Renzi a quel punto avrebbe dovuto capitalizzare al meglio l’inevitabile sconfitta della domenica successiva, cercando di tenere la forbice più stretta possibile.
Invece ha sbagliato strategia su tutta la linea: ha impostato la campagna sullo “scippo” dei voti nuovi, sulla rissa sulle regole, ottenendo tre risultati negativi.
Il messaggio che passava era: ”solo nuovi elettori mi possono far vincere”. In questo modo non ha particolarmente motivato i suoi elettori del primo turno, tant’è che pur avendo sostanzialmente confermato i suoi voti (1.100.000), ne ha perso qualcuno per strada, mentre Bersani forte dell’appoggio degli altri candidati poteva solo aumentare (circa 1.700.000 alla fine rispetto al 1.400.000 di partenza).
Renzi ha giocato la carta dei “nuovi” dando per scontato di non poter rastrellare nulla tra chi già aveva votato prima. E questo è stato un errore, perché è pur vero che a fronte di 3.100.000 del primo turno solo poco più di 2.800.000 hanno replicato. Ci sono dunque circa 300.000 elettori che, pur non votando Bersani, non sono stati sufficientemente motivati a votare Renzi, che aspettava l’arrivo del settimo cavalleria da fuori pur sapendo che tutti gli accessi erano presidiati: l’appello ad “andare lo stesso ai seggi” sapeva di disperazione.
Seconda questione: le polemiche. Andare allo scontro tanto da far aleggiare il sospetto di brogli non è piaciuto. Aver fatto pubblicità sui giornali a dispetto del regolamento nemmeno. Renzi ha ricalcato uno schema Berlusconiano, in cui la regola (ancorchè stupida o discutibile) una volta accettata può essere rigettata e contestata unilateralmente.
In questo modo si è posto molto lontano dal “sentire” della gran parte del popolo del centrosinistra apparendo furbesco e scorretto. Può aver galvanizzato qualcuno dei suoi ma ha allontanato molti altri.
Infine: non ha capito che aveva già vinto quello che poteva vincere. La vittoria assoluta non era alla sua portata perché Bersani poteva contare su 1.400.000 voti al primo turno e sui 600.000 voti potenziali dei suoi ex competitors che gli avevano dichiarato appoggio.
Al ballottaggio si partiva dunque da due milioni (potenziali) contro uno: il suo obiettivo doveva essere ridurre la forbice, tentare con ogni sforzo di affascinare qualche elettore che magari durante la campagna aveva cominciato ad avere dei ripensamenti rispetto all’idea di dover per forza votar Bersani. Invece neanche una parola. Di fatto ha “regalato” questi elettori al segretario senza tentare di infondere mai in loro il tarlo del dubbio
Il Renzi e il suo staff sono stati però sufficientemente accorti da cogliere a urne aperte il loro errore e quindi di ricalibrare il finale di partita mescolando orgoglio, fair play e anche ironia. E sono stati abili a chiudere immediatamente ogni polemica su presunti “brogli” che potessero alimentare l’idea di un confronto falsato.
E adesso?
Adesso palla a Bersani: l’uomo ha già il fiato sul collo dei cacicchi (D’Alema, Bindi, Marini, Fioroni e tutta l’allegra compagnia). Al di là delle dichiarazioni di rito ora deve decidere: può tenere una linea continuista, portandosi dietro i vecchi baroni, e al contempo neodemocristiana e correntista, blandendo un po’ di qua Vendola e un po di là Renzi e poi fuori i Casini e via elencando. Oppure cogliere un’occasione forse irripetibile. L’idea è quella di passare dall’attuale PD, un ibrido indigeribile, un’accozzaglia di sigle e di spezzoni di ceto politico direttamente stagionato nella prima repubblica, a un nuovo partito: un contenitore ampio, al cui interno convivono diverse componenti che si scontrano sulle proposte (ala socialista, neo keynesiani, ala radicale, ala liberal) ma che si riconoscono tutte nell’esigenza di un cambiamento strutturale. Basta dunque con i residuati bellici del Pci, con le scorie del socialismo craxiano, coi brontosauri democristiani, con gli antichi modernisti Prodiani, con le quinte colonne del clero (dalla Binetti a Fioroni passando magari per Rutelli..).
Per fare questo però sarebbe necessario che Bersani agisse come un vero comunista togliattiano (cosa che non è). Dovrebbe avere l’infinito coraggio di spazzare via la nomenclatura che lo ha sostenuto, venire a patti con Renzi riconoscendone la forza intrinseca e riassorbire Vendola e Sel dentro al partito. Forse un’impresa un po’ troppo difficile per l’uomo col sigaro, ma parafrasando la battuta che ha fatto Renzi, potrebbe fare una cosa che non riesce più neanche alla destra: provare a vincere.

Paolo Soglia