Il voto sardo: la pistola fumante di un “delitto politico”

Il voto Sardo rende banalmente conto del “crimine politico” commesso da Letta (ma avvallato da tutte le correnti PD) alle scorse elezioni.
Lo denunciammo allora, prendendoci insulti vari da militanti piddini che ci accusavano di tradimento: “volete far vincere la destra!” Urlavano allora (si, ciao core…).
In realtà quel crimine, perchè di crimine si tratta seppur politico, non nasceva per caso.
Era talmente assurda e autolesionista la scelta di rompere l’alleanza coi 5 stelle per consegnare il paese ai fascisti che ci sarebbe arrivato anche un bambino, figuriamoci navigati politicanti che stanno nelle stanze del potere da decenni.
Facciamo un passo indietro: dopo due anni di alleanza coi 5 stelle avvallata da innumerevoli elezioni locali Letta rompe improvvisamente con Conte, senza indugi, alla vigilia delle elezioni. Una rottura irrimediabile con annessa scomunica inappellabile per Conte. L’accusa è quella di “Draghicidio”, di cui Letta si intesta immediatamente l’eredità, tanto da dichiarare che la bussola politica del PD è “L’Agenda Draghi”, una sorta di Bibbia neoliberista ricevuta direttamente dalle mani del Messia della finanza mondiale.
La banale quanto scontata contestazione che andando divisi al voto avrebbe significato non la sconfitta, ma la disfatta, non scompone la segreteria del PD che finge che la partita sia tra Letta e Meloni e che il PD possa giocarsela in piena autonomia, Ovviamente non è così, quindi cercano di imbarcare il peggio che c’è in circolazione, dai Calenda ai Renzi, puntando addirittura sul reietto Di Maio per raggranellare qualcosa (ho detto Di Maio… quello di Bibbiano).

Cos’è successo dunque, veramente?
Un complotto atlantista. E’ tempo di guerra in Europa, e non sono accettate defezioni: la fedeltà atlantica deve essere garantita, costi quel che costi, e poco importa se a governare il condominio locale italiano siano i cosiddetti “democratici” o i fascisti convertiti all’atlantismo.
Draghi fin da subito ha posizionato l’Italia sulla portaerei statunitense, tanto che il nostro paese è il più intransigente, sia prima dell’attacco russo sia dopo, nel sostenere le ragioni della guerra, sfidando le iniziali perplessità francesi e tedesche.
Le elezioni però possono scombussolare i piani: Conte e i 5 stelle sono considerati infidi, pacifisti, e vogliono negare le armi all’Ucraina. Visto che la Nato non può permettersi serpi in seno a Letta arriva l’ordine da Washinghton di bruciare i ponti, costi quel che costi, persino la più rovinosa sconfitta della (cosiddetta) sinistra dal dopoguerra.
Le aree reazionarie all’interno del PD che già maldigerivano Conte si mettono immediatamente in moto e i giochi sono presto fatti: Draghi cade per mano di Salvini che si sfila dal campo largo, ma la colpa viene data a Conte, “Il Traditore del Draghismo”, e la sentenza è inappellabile. Da lì al suicidio elettorale è presto fatta.

Il “crimine politico” di Letta e company si tinge poi di infamia quando nella chiamata alle armi elettorale viene giocata la carta della battaglia antifascista.
L’antifascismo non è un abito da indossare per gioco e mero calcolo, è scelta quotidiana, coerenza di pensiero e azione. Ma Letta e soci se ne sbattono: dopo aver aperto le porte di Roma ai fascisti, chiamano il popolo alla battaglia “antifascista” sapendo di portarlo a inevitabile disfatta, con conseguente sconfitta anche dell’intero fronte antifascista, non solo del PD.

Il voto in Sardegna con la vittoria della candidata 5 stelle in alleanza col Pd di Schlein non è altro che la prova provata di questo crimine, di quanto si poteva fare ma non è stato fatto, e non per errore: per volontà politica.
Un “crimine politico” perpetrato in nome dell’atlantismo militante e del neoliberismo.
Considerate però che i nemici sono ancora tutti lì. Adesso sono costretti ad accucciarsi un po’ e a fare complimenti a denti stretti, devono far buon viso a cattivo gioco.
Anche perchè poi in fondo è un’elezione locale di cui a Washington non importa nulla.
Ma quando si farà sul serio la Elly sarà richiamata all’ordine: il nulla cosmico in cui si barcamena sulle guerre, dall’Ucraina al Medio Oriente, non sarà più sufficiente e i 5 stelle rimangono una forza ostile.
Al fronte atlantico non frega nulla che cada la Meloni o resti in piedi, che governino i democratici o i fascisti. In questo senso sono pragmaticamente “maoisti”: l’importante non è se il gatto è bianco o è nero, l’importante è che prenda i topi.
Peccato che i topi siamo noi.

Paolo Soglia

PS
Quel genio di Macron ha appena annunciato l’idea di creare una forza multinazionale europea che vada a combattere in Ucraina contro la Russia. Il che significherebbe entrare ufficialmente in guerra con la Russia. Questi sono dei pazzi pericolosissimi, che nulla hanno da invidiare ai Putin e ai Netanyahu. Nessun soldato italiano deve essere inviato in Russia (non vi è bastata la lezione dell’Armir nel ’42/43?), nel caso gli atlantisti tentino il colpo di mano bisognerà organizzare la diserzione.

Il Mostro

Pare che Filippo Turetta sia stato arrestato in Germania.
Bene, ma magra consolazione visto che ha già fatto quanto si era preposto di fare.
Filippo Turetta è un mostro? Magari.
Con la definizione di “mostro” tendiamo a esorcizzare il male. Lo spostiamo a un “altro da sé”, a qualcuno che non ha nulla a che fare con noi.
Il Mostro è un anormale, un deviato, un qualcosa di incomprensibile che non ci appartiene. E quindi ci rassicura: è un mostro e quindi è diverso da noi. Forse non ce ne siamo accorti, ma era un mostro.
Il problema è che questi mostri parlano come noi, vivono in mezzo a noi, studiano con le nostre figlie o sono nostri colleghi di lavoro.
Possono fidanzarsi con nostra figlia o una nostra amica, apparentemente senza manifestare alcuna sembianza del mostro.
Come fanno? È semplice, non sono mostri. Quella è solo la rappresentazione consolatoria che ci diamo a cose fatte.
La loro possessività malata viene distillata, diluita, camuffata e spesso purtroppo giustificata proprio dalle loro partner.
Le controllano? Ma dai, È fatto così.
Le isolano dagli amici, ne scoraggiano le relazioni sociali? Va beh, è che ci sta male: ma tanto non glielo dico e continuo a vedere chi mi pare (ma di nascosto, dovendo mentire).
E di giustificazione in giustificazione la tela si stringe, il controllo si fa sempre più pervasivo.
E quando lei per una qualche ragione non accetta più il controllo o disubbidisce scatta la molla.

Non sempre fino all’omicidio, intendiamoci. Per uno che uccide ce ne sono cento che usano altre forme di violenza: botte, violenza psicologica, violenza sessuale.
E ce ne sono mille che si limitano (diciamo così) a stalkerizzare, perseguitando la partner con messaggi o facendosi sempre trovare dove è anche lei.
Dunque se facciamo la somma i mostri sono veramente tanti, troppi per essere considerati anomale eccezioni.
Come sempre in questi casi parte poi il dibattito sulle responsabilità: la famiglia, la scuola, la società a retaggio patriarcale, l’infida sottovalutazione maschile che non fa avvertire questi soggetti come un pericolo e quindi non li isolano.
Tutto vero ma non del tutto sufficiente.
Il 40% delle violenze sulle donne quest’anno è stato compiuto da giovani tra 18 e 35 anni.
Giovani maschi totalmente incapaci di gestire una relazione non basata sul possesso e controllo, incapaci di gestire un rifiuto o la fine della relazione stessa.
In sostanza, gente in piena crisi di identità.
Ribaltando il tavolo, e guardando i comportamenti e le libertà di cui vogliono giustamente usufruire le donne giovani, libertà e consapevolezze sicuramente molto maggiori di quelle che erano in voga e tollerate ai tempi delle loro madri e delle loro nonne, potremmo arrivare a dire che è proprio il declino della società patriarcale e dei suoi ruoli codificati a spiazzare una quota non trascurabile del genere maschile.

Nella nostra società c’è un’area grigia di maschi in crisi di identità, incapaci di gestire il cambiamento, che comporta per esempio il fatto che una donna non debba giustificare i propri comportamenti, la propria vita sessuale, la potestà di interrompere una relazione o di viverne più d’una contemporaneamente. Tutte prerogative una volta di unica spettanza al genere maschile.
In quest’area grigia, in cui nuotano molti giovani maschi, monta quindi un disagio oscuro: la ricerca della donna più remissiva, o comunque più incline ad accettare un ruolo subordinato.
Ma l’acqua in cui possono nuotare questi soggetti si è fatta sempre più ristretta, tante (troppe ai loro occhi) non accettano alcuna forma di controllo, reagiscono subito, li respingono. E cresce la frustrazione.
La ricerca ossessiva di soggetti più deboli e remissivi comporta che questi maschi dell’area grigia diventino anche abili manipolatori.
Non crediate che si comportino come dei “compari Turiddo” o ostentino i tipici stereotipi machisti. Tutt’altro: spesso ostentano con le donne le loro debolezze, unite però alla “genuinità” dei loro sentimenti, alla volontà di dedicarsi alle loro donne con tutto se stessi, anima e corpo. La manipolazione inizia da li e una volta trovate le chiavi giuste per insinuarsi nella mente della partner la relazione si fa sempre più chiusa, morbosa, ossessiva.
Ma anche in questi casi tutto può andare in pezzi: un rifiuto, una “disobbedienza”, il sottrarsi al controllo, soprattutto quando si sentono ormai padroni di quella persona, assumono agli occhi del maschio di quell’area grigia i connotati della colpa. La perdita di controllo, il tentativo della partner di sottrarsi ai suoi “obblighi” diventa ai loro occhi intollerabile. E quindi merita una punizione, che questi soggetti agiscono senza sentirsi dei mascalzoni o degli infami, ma sentendosi “nel giusto”, nel loro “diritto” violato dai comportamenti di lei.
Purtroppo di questi maschi che vivono in quest’area grigia ce n’è tantissimi e spesso sono giovani, frustrati, deboli e incapaci di affrontare il declino della società patriarcale che gli dava di default la sicurezza di un ruolo consolidato.

Magari fossero mostri…

Paolo Soglia

IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE

Il tramonto dell’Occidente (e l’unica sua via di salvezza). 

Nel post pandemia abbiamo già assistito a tre crisi gravissime, di cui due sfociate in guerre devastanti: Ucraina, Taiwan e Gaza.
I contesti sono diversi, così come gli interessi in gioco, ma ci sono alcune costanti. 
1. Piaccia o non piaccia esiste una parte di mondo sempre più consistente, maggioritaria in termini di territorio e di popolazione, che è insofferente rispetto alla supremazia mondiale politica, economica e militare esercitata dall’Occidente a guida americana.
2. Le crisi degli imperi si manifestano soprattutto in base a una debolezza intrinseca al concetto stesso di impero. Un impero ha la necessità e l’obbligo di intervenire costantemente su ogni fronte che presenta una crepa e di impegnarsi, anche militarmente, in ogni guerra che ne metta in discussione gli equilibri acquisiti.
Viceversa, i nemici dell’impero possono agire o non agire a seconda dei loro interessi regionali o geopolitici, ma al dunque sfruttano anche le crisi aperte da altri per fare fronte comune nella politica di indebolimento globale dell’impero Occidentale.
3. Terza criticità, la maggiore: il modello imperiale Occidentale democratico/capitalista/liberista dopo l’epoca dei blocchi e il crollo dell’Urss è declinato, non è più appetibile né appetito. Paradossalmente sono più gli stati occidentali che tendono verso modelli autocratici autoritari di quelli del resto del mondo in cui si sviluppano spinte emulative del modello occidentale democratico/liberale.
Questa situazione va avanti da anni e siamo ormai al punto di rottura, vicinissimi al “redde rationem”.

Il fronte “multilateralista” è composito, comprende paesi dichiaratamente nemici dell’Occidente, principalmente Russia, Iran, Corea del Nord e anche parzialmente la Cina, seppur con l’esigenza cinese di mantenere un aplomb da super potenza che gli impone una disponibilità di facciata alla trattativa e al dialogo con la controparte.
Poi esistono miriadi di situazioni “ibride”: paesi ambigui, in cui l’inchino al padrone occidentale viene ancora fatto per ragioni di sottomissione o di convenienza, ma la mano dietro la schiena di chi fa l’inchino impugna un coltello. La malcelata soddisfazione per gli insuccessi dell’Occidente e le crisi che si aprono al suo interno sono così palesi nel resto del mondo da non dover essere manco dissimulate più di tanto.

A rendere tutto più complicato è il doppio standard che viene applicato alle regole globali stabilite dal potere imperiale dell’Occidente. 
L’origine del disastro sono state le guerre di invasione in Medio Oriente dagli anni ’90  in poi, dopo la caduta dell’Urss. Ma non solo, anche la guerra alla Jugoslavia per staccare il Kosovo dalla federazione, l’ampliamento della Nato a Est sconfessando le promesse fatte a Gorbaciov dopo la caduta del muro, e via via tutti gli altri scenari di intervento in cui è stato sempre più palese l’imposizione di un doppio standard: ciò a cui debbono sottomettersi gli altri non vale per se stessi, né in pace, né in guerra. 
La frettolosa ritirata dall’Afghanistan occupato per vent’anni, il clamoroso fallimento della pretesa occidentalizzazione del paese (“l’esportazione della democrazia”) con la schiacciante vittoria dei talebani che nel giro di due settimane si sono ripresi il potere, è la plastica dimostrazione di questa debacle. 

L’Occidente può salvarsi o è destinato a soccombere, portandosi  dietro con sé tutto il mondo in una guerra globale? 
È la domanda che nessuno sembra voler affrontare. 
È implicito in ogni impero l’impossibilità concettuale di pensarsi come tale, come (anche) oppressore. Si rimane schiacciati nella visione del proprio modello, improntato alla superiorità del “giusto” e del “bene”, e questo rende quasi impossibile ipotizzare una propria sconfitta. 
È anche molto difficile razionalizzare e mettere in pratica il concetto di ridimensionamento imperiale, accorciando i confini e gli ambiti di intervento. 
Tuttavia l’unica chances per l’umanità di non soccombere in un conflitto globale sta proprio nel tentare un ridimensionamento dell’Occidente, che non deve però solo essere quantitativo, continuando al tempo stesso nel proprio spazio a perpetrare le stesse logiche imperiali precedenti. 
Dovrebbe anche produrre un cambiamento politico/qualitativo al suo interno, rimettendo pesantemente mano al proprio modello. 

La dico semplice, seppur sembra enorme: il globalismo turbocapitalista del liberismo imperiale è finito, è destinato alla sconfitta. 
Non è più sostenibile, continuare a sostenerlo per ragioni di supremazia imperiale non può che comportare la deflagrazione dell’Occidente, con tutto quello di terribile che questo può comportare nelle nostre società. 
Il destino a quel punto sarebbe la migrazione sempre più consistente di pezzi d’Occidente verso modelli autoritari di stampo eurasiatico (cosa che sta già accadendo in varie parti d’Europa, peraltro) e dall’altra parte una guerra che coinvolgerebbe direttamente gli Usa contro il blocco multilateralista, evenienza che non esclude il conflitto nucleare. 

L’unica salvezza per l’Occidente, per come si è messa, è difficilissima e paradossale: riciclarsi in versione socialista, con l’obiettivo di contenere e poi sottomettere i poteri finanziari che si sono internazionalizzati ed emancipati, creando un sovrastato parallelo che governa gli stati “democraticamente eletti” dell’impero.
Pur avendo avuto base in Occidente questo sovrastato dei poteri finanziari si è emancipato con la globalizzazione: essi non rispondono più necessariamente agli interessi dell’Occidente, o lo fanno solo in parte (rimane la politica del dollaro moneta di scambio globale, arma finanziaria dell’Occidente, ma anche questa viene aggredita dal fronte eurasiatico). Sono lontanissimi i tempi in cui il Presidente Wilson poteva affermare:  “Ciò che è buono per la General Motors è buono per la nazione”. I poteri economico finanziari non rispondono più agli ordini della politica, sono poteri autonomi globalizzati che perseguono esclusivamente il proprio interesse e arricchimento, spesso in alleanza di interesse col campo avverso.
In questo contesto, col potere politico sottomesso al sovrastato dei poteri economici, lo stesso concetto di democrazia liberale ha perso terreno e fiducia. Il consenso e la legittimità delle leadership occidentali è ora ai minimi termini: le elezioni democratiche in paesi in cui la democrazia è svuotata di ogni potere a causa degli interessi politico/finanziari sovranazionali vengono disertate, e così le elite dei ceti politici occidentali sono autoreferenziali, vengono elette solo per fare i maggiordomi e la guardia al recinto.

Va dunque riaffermata con forza una supremazia dell’interesse pubblico su quello privato, della politica sui poteri economici. La finanza globale speculativa occidentale va stroncata e sottomessa, riportata sotto controllo (pensate a come si comportano le autocrazie russe e cinesi coi loro “oligarchi”: quando si allargano troppo e possono uscire dal controllo vengono annientati). 
È un cambio di modello drastico, lo capisco, probabilmente giudicato irrealizzabile ma necessario per non morire, necessario anche per riaffermare l’appetibilità di un modello di società agli occhi di tutti i paesi del mondo, erodendo così il consenso di cui godono ora le autocrazie eurasiatiche e islamiste. 
Un socialismo di venatura liberale ma fortemente antiliberista può scavare dall’interno la fossa alle autocrazie eurasiatiche, a patto di accettare – in parte – anche una versione multilateralista del mondo, rinunciando all’impero globale. 

E’ utopia? Probabile. Ma qual è l’alternativa? Quando gli imperi crollano lo fanno di schianto e quando la situazione precipita si entra in una fase di non ritorno, in cui nessuna riforma può cambiare i destini dell’Impero. e noi ci siamo vicinissimi.
Ricordiamoci una lezione aurea: si può conquistare il potere con la violenza, ma non lo si può mantenere senza un altro fattore ben più importante, il consenso. 
Quindi, per un paradosso della storia, solo un nuovo Socialismo può ormai salvare l’Occidente capitalista. 

Paolo Soglia

Connessioni strage di Ustica / Uno Bianca? Le parole del 1995 di un personaggio che entrò nell’inchiesta sul DC9, Guglielmo Sinigaglia, che definì i Savi una “scheggia impazzita” della rete Stay Behind.

Diciamolo subito: le connessioni tra la strage di Ustica e la banda della Uno Bianca sono assai incerte e basate su dichiarazioni di personaggi ambigui che citano peraltro circostanze spesso incongrue o inverosimili. La Repubblica riesuma in data 11 settembre una dichiarazione di un componente della banda, Pietro Gugliotta, resa nel ’95 al PM Giovannini citando un colloquio con Roberto Savi in cui il Savi medesimo gli avrebbe confidato particolari sui resti di un Mirage coinvolto nella strage di Ustica. Quelle dichiarazioni (che non ressero però all’esame del giudice Priore) sono contenute anche nell’esposto presentato nel maggio scorso dall’avvocato Alessandro Gamberini, legale dei familiari delle vittime, per chiedere la riapertura delle indagini sulla Uno Bianca. In questo video vi presento la dichiarazione estrapolata da un’intervista del ’95 di un altro personaggio, Guglielmo Sinigaglia, che tra l’89 e il ’90 si presentò a vari giornali (Messaggero, Panorama) come ex legionario e ufficiale dei servizi sotto copertura, che in tale veste avrebbe partecipato all’operazione militare internazionale “Eagle run to run” per abbattere l’aereo di Gheddafi e che si concluse con l’abbattimento del DC9. Le verifiche dei magistrati portarono a considerarlo un “inquinatore” dell’indagine, soprattutto a causa delle gravi inesattezze contenute nelle descrizioni del Sinigaglia sulla presunta operazione militare multinazionale segreta a cui il Sinigaglia sosteneva di aver partecipato. Tuttavia i magistrati appurarono come autentico il ruolo del Sinigaglia svolto successivamente sotto copertura, nell’81, per rifornire i ribelli libici di armi nell’ambito dell’operazione segreta “Tobruk 2”. Dunque per i magistrati Guglielmo Sinigaglia mischiava fatti veri a ricostruzioni fantasiose al fine di inquinare l’indagine e per questo lo processarono (fu assolto per prescrizione).
Ebbene, pur smentito dalla magistratura il Sinigaglia per anni continuò a rilasciare interviste e a parlare di un suo memoriale sulla vicenda Ustica. In un passaggio dell’intervista rilasciata nel ’95 al mensile on line “Sottovoce” il Sinigaglia parla anche della banda Savi, definendola una scheggia impazzita facente parte delle squadrette segrete della rete Stay Behind, inglobata a livello internazionale nella struttura “Vagant Cosmic”, rete smantellata attorno al 1990 dopo la caduta del muro, che a quel punto si sarebbe “messa in proprio”, manternendo però ancora un certo grado di copertura.
In conclusione: a mio parere i collegamenti tra il caso Ustica e la banda della Uno Bianca sulla base di questi elementi appaiono aleatori e pieni di incongruità. Elementi insufficienti per affermare un coinvolgimento diretto, anche solo di conoscenza di informazioni, dei Savi nella vicenda.

Ustica esclusivo: parla il Generale dell’Arma Nicolò Bozzo, che la sera del 27 giugno 1980 fu testimone del massiccio impiego dell’aereonatica francese dalla base di Solenzara in Corsica. Bozzo era anche a conoscenza di un piano di colpo di Stato organizzato da militari dell’aereonautica libica per abbattere Gheddafi

All’indomani delle rivelazioni dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato su Repubblica, in questo video del 2010 presentiamo gli audio dell’intervista esclusiva realizzata da Radio Città del Capo all’ex generale di divisione Nicolò Bozzo, già collaboratore del Generale Dalla Chiesa, deceduto nel 2018. Nicolò Bozzo la sera del 27 giugno 1980 fu testimone oculare dell’intenso traffico aereo militare sui cieli della base francese di Solenzara, in Corsica. Fin dal giorno successivo alla strage Bozzo si fece convinto che qualcosa di gravissimo era successo: tutto portava a pensare che il DC9 dell’Itavia fosse stato abbattutto in uno scontro aereo, lanciato per colpire il velivolo di Gheddafi che stava volando verso la Jugoslavia, nell’ambito di un piano che coinvolgeva anche la Nato per eliminare il leader libico. Bozzo era generale dei carabinieri e delle fonti ce le aveva: un informatore in Libia gli aveva confidato poche settimane prima della strage di un piano per un colpo di stato militare, in Libia, da effettuare mentre Gheddafi era in viaggio. Nell’intervista Bozzo racconta i fatti di cui fu testimone e si dichiara convinto della responsabilità francese nell’abbattimento.

Non disturbate il manovratore (soprattutto quando piove)

Mercoledì 17 ho pubblicato questo post, corredato da foto del rapporto ISPRA che attestano i dati sul consumo di suolo e sul dissesto idreogeologico in Regione:
Quando sarà passata la bufera piangeremo i morti, puliremo le strade, chiederemo i fondi allo Stato per i danni della calamità naturale e poi malediremo Giove pluvio che ha fatto cadere in pochi giorni l’acqua che cade in un anno, evento anomalo e eccezionale.
Ma ci dimenticheremo che la Regione Emilia-Romagna è la terza in Italia per consumo di suolo e la prima per consumo di suolo in aree alluvionabili.
Ci dimenticheremo che nella classifica dei comuni che hanno più cementificato negli ultimi anni, quattro sono Emiliano-Romagnoli e Ravenna è seconda solo a Roma.
Ci dimenticheremo degli investimenti strutturali non fatti per rimetter in ordine i nostri fiumi e i nostri canali, cercando di contenere i danni di eventuali eventi eccezionali.
L’impermeabilizzazione del suolo nella nostra Regione è ai massimi livelli: se su un campo cadono 10 mm d’acqua in superficie ne rimane 1, se cadono su un parcheggio ne rimangono 6.
Queste masse d’acqua non sono più smaltibili e assorbibili dalla nostra rete fluviale e di canali, e complici eventi atmosferici anomali assumono la dimensione del disastro, fiumi e torrenti esondano e le città vanno sott’acqua.
Purtroppo siamo tutti noi i responsabili: non dell’eccezionalità dell’evento atmosferico, ma del fatto che invece di pensare a come limitare i danni ne abbiamo ampliato esponenzialmente la portata.
C’è in noi, in molti di noi, lo stereotipo di vivere nella Regione “meglio amministrata d’Italia”.
Come in ogni stereotipo c’è un fondo di verità, ma questo impedisce spesso di valutare con severità e obiettività tutto quello che invece non è stato fatto o peggio è stato fatto male, preparando il terreno al disastro odierno.
E sul piano del dissesto idrogeologico sicuramente l’Emilia-Romagna non è tra le migliori d’Italia, anzi…
Ma pesano interessi politici, Leggi Regionali che permettono incrementi d’uso del suolo tra i più alti d’Italia, interessi dei Comuni a espandere, dei privati e delle imprese a cementificare, in nome dell’unico Dio rimasto: il denaro.
La connivenza è vastissima e neppure le opposizioni di destra possono chiamarsi fuori visto che tacitamente sono complici e acconsentono.
Ora, per cambiare le cose bisogna passare dalle parole, dalla fuffa con cui spesso ci si riempie la bocca, ai fatti.
Se non vogliamo rivedere le scene dell’oggi ripetute puntualmente domani bisogna rinunciare a qualcosa: al consumo indiscriminato di suolo. E bisogna spendere molto di più su qualcos’altro che non siano passanti e centri commerciali, o nuovi distretti industriali.
Scelte difficili, soprattutto per politici d’ogni colore che vivono del consenso dell’oggi, il cui orizzonte, se va bene, va da un’elezione a un altra e non certo sui decenni a venire.
Ne saremo capaci? Ci spero ma ne dubito.

A seguire un altro post in cui chiamavo in causa direttamente l’Istituzione Regionale, e il silenzio imbarazzato: non sulla catastrofe ovviamente ma sulle concause che l’hanno prodotta. Alcune persone, tra cui anche alcuni amici, hanno reagito infastiditi al post, dicendo che questo non è il momento di discuterne, vista l’emergenza. Altri ci sono andati giù più pesante: “chi non fa, chiacchiera”, “deploratore seriale”, etc. etc.
C’è libertà di pensiero, quindi va bene tutto. Mi è venuto in mente però il bel documentario firmato dal mio amico Federico Lacche e da Stefania Pellegrini: “Benvenuta al nord”, che parla della mafia in Emilia-Romagna all’indomani del processo Aemilia che ha scoperchiato la piovra mafiosa nel nostro territorio. Ebbene il senso del film, oltre alla descrizione del fenomeno, era come il fenomeno stesso fosse stato negato pervicacemente un po’ da tutti: politici, amministratori, imprenditori ma anche semplici cittadini.
“In Emilia-Romagna la mafia non esiste”, questo era il leit motive. Perchè è ovvio, la mafia riguarda solo regioni come Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, non certo la nostra regione che è un territorio sano con istituzioni forti. Purtroppo non era così, ora lo sanno tutti, le ‘Ndrine hanno capillarmente occupato spazi e si sono poste come player economici di primaria grandezza, soprattutto nel settore costruzioni e movimento terra, in collusione con l’imprenditoria locale e con stimabili professionisti.
Mentre alcuni magistrati faticosamente indagavano, gli amministratori nella loro quasi totalità negavano il fenomeno, offesi che il loro territorio fosse accostato alla mafia, criticando peraltro i magistrati stessi accusandoli di denigrare le loro città.

In questo caso non si parla di mafia ma di dissesto idrogeologico, però in parte le reazioni sono le stesse: “ma come ti permetti di dire certe cose, soprattutto nel momento dell’emergenza?”. Bene, se le dico tra una settimana o tra un mese cambia qualcosa? Probabilmente si: finita l’emergenza, seppelliti i morti e ripulite case e strade, l’evento sarà catalogato come una colossale “sfiga” soprannaturale, mai accaduta prima e che certo non riaccadrà domani, e via come prima, come se nulla fosse successo.
Purtroppo quasi tutti gli studiosi, i meteorologi, gli esperti del clima, concordano nel dire che l’eccezionalità delle precipitazioni di questi giorni possono tranquillamente ripetersi e sono i frutti concreti di quel cambiamento climatico di cui parliamo da vent’anni, senza fare nulla, come se il problema riguardasse solo l’inondazione degli atolli del Pacifico, e quindi fatti loro.
Invece, purtroppo, sono anche fatti nostri: l’alternanza sul nostro territorio di siccità estreme e precipitazioni estreme si sta delineando chiaramente. Non sappiamo “quando” accadrà ma sappiamo sicuramente che accadrà ancora.

Al mito di Cassandra, profetessa inascoltata, si oppone nella nostra Regione il mito della Regione “meglio amministrata d’Italia”. Come ogni mito, come ogni stereotipo, esso contiene verità indiscusse. Ma esattamente come nel caso della penetrazione mafiosa questo mito finisce per rivoltarcisi contro, creando un clima di negazione del problema e di risentita offesa nei confronti di chi lo solleva, mettendo in discussione le politiche dell’amministrazione.
A nulla vale ricordare che siamo tutti responsabili, non solo gli amministratori, ma la società nel suo insieme che non intende affatto rinunciare a un modello di sviluppo ormai insostenibile. Di mio questa amministrazione l’ho pure votata, quindi non mi chiamo fuori.
Tuttavia appare evidente il ritardo intellettuale su questi argomenti, non solo della politica, il cui orizzonte è sempre più ristretto, ma della società nel suo complesso.
Pensiamo alla “transizione ecologica” immaginata in Europa: sostituire le auto a combustione interna con quelle elettriche. E’ una misura ruffiana che tenta di conciliare esigenze reali (diminuire le emissioni) con la pervicace volontà di non discutere minimamente il modello di sviluppo, che prevede una o due macchine di proprietà per ogni famiglia. Per lorsignori basta sostituire il motore e il problema è risolto. Una sorta di gattopardo del terzo millennio: cambiare tutto perchè non cambi nulla… o per meglio dire si vuole tutto senza rinunciare a niente.
D’altronde quale Sindaco in campagna elettorale solleverebbe il tema di ripulire i canali e magari di sfasciare mezza città perchè quelli tombati sono ormai inadeguati? Già si viene crocifissi per il tram, figuriamoci per opere che nell’immaginario collettivo sono inutili, costose e impattanti (salvo poi trovarsi l’acqua in casa, ma va bene).
E a livello regionale idem: abbiamo una legge suicida sul consumo di suolo che fa dell’Emilia-Romagna quella a più alto consumo in aree alluvionabili. La rete fluviale e di canali è ormai inadeguata a contenere nuovi fenomeni estremi, l’impermeabilizzazione del suolo aumenta esponenzialmente la quantità d’acqua da smaltire, le aree golenali e i bacini di smaltimento non si fanno perchè bisognerebbe spostare attività economiche, capannoni, abitazioni, costruiti in ogni dove in questa onnivora antropizzazione della pianura Padana, che è diventata ormai un unico nastro di cemento.

Cambiare non è affatto facile, è più facile fare gli struzzi, appellarsi al fato, all’evento eccezionale, tirare un bestemmione e tirare avanti.
Ma se è lesa maestà pure discuterne allora siamo spacciati.

Paolo Soglia

PS
Pare che anche Bonaccini abbia il suo stilista/armocromista, notare l’abbinamento: Intervista sulla 7 /Felpa della Protezione Civile (mi ricorda qualcuno…).

Il Sol dell’Avvenire

La morte dell’utopia uccide.
Film crepuscolare quello di Moretti, che torna a essere morettiano non facendoci mancare nulla del repertorio classico, ma che a me ha dato l’idea di essere un addio.
Moretti è ormai vecchio e dunque in fase di bilanci: quando aveva 44 anni in “Aprile” si preoccupava del metro della vita e di come fossero pochi i 36 anni che gli restavano da vivere, ora ne ha 69… la miccia è sempre più corta..
E’ il mondo di Moretti che si disgrega attorno a lui e ai suoi tic tutti enunciati, dalle scarpe ai dolci. Tutti rituali rassicuranti ma ormai vuoti di significato. Così come il film sul 1956, che non interessa a nessuno, e il conflitto nel PCI, partito di cui i suoi stessi collaboratori ignorano la storia (“c’erano i comunisti in Italia?” Gli chiede un babbeo della troupe).
Moretti parla del mondo sempre attraverso di sè, e così se trent’anni fa vedendo i melensi film sul “come eravamo negli anni ’70”, ribadiva con orgoglio e ottimismo: “Voi gridavate cose orribili nei vostri cortei, io dicevo cose giuste e sono uno splendido quarantenne”, ora invece è a pezzi, inadeguato, sorpassato e soprattutto senza speranza.
Non resta dunque che un’ultima ribellione: accettare la sconfitta e “morire” lui al posto del protagonista del suo film, in un finale grottesco che trasforma il film sul ’56 in un film d’amore, con l’improbabile trionfo di un socialismo dal volto umano e redentore.
Ma il corteo finale più che un lieto fine sembra un corteo funebre, con tanto di saluto finale del regista al suo pubblico.

Proprio di recente mi interrogavo sul danno che sta procurando la fine delle utopie, la fine della storia già evocata da Fukuyama.
Agli albori della globalizzazione la signora Tatcher, negli anni ’80, affermò perentoria il celebre motto “There is not alternative” (al capitalismo). Ebbene, a oltre quarant’anni di distanza il “Realismo Capitalista”, per dirla con Fisher, ha strangolato la società tutta, ucciso ogni speranza, mettendo a rischio la salute mentale degli individui a livello di massa e la vita del pianeta a livello ecologico. Ma siamo sempre lì: “There is not alternative”.
La fine delle utopie uccide i giovani, si è interrotto il ciclo conoscenza + sentimento = coscienza, quindi anche la conoscenza non ha più alcun senso, e il sentimento è stato sostituito dall’intrattenimento.
In questo il film regala forse la sua scena più significativa, quella in cui Moretti interrompe il film d’azione violento all’ultima scena, quella dell’esecuzione: una violenza talmente inutile, banale e scontata da essere, appunto, puro intrattenimento, da digerire e espellere in bagno al mattino dopo senza alcun problema.
La lezione sulla violenza nella descrizione dell’esecuzione del tassista nel film di Kieslowsky è il pezzo più forte del film, chapeau!
Questa scena fa il paio con quella del “mondo Netflix”, un sistema produttivo globalizzato dell’immaginario molto più atroce delle censure di antica memoria. La censura politica era un arbitrio e come tale poteva essere contestato, la censura del mercato è invisibile e asettica, così come il momento “what’s the fuck” che deve arrivare in quel determinato minuto, nè prima nè dopo. Non c’è alternativa e nessuno lo mette in discussione, in nessuno dei 190 paesi in cui distribuisce Netflix.
A sto punto che senso ha continuare a sbattersi? Dio è morto, Marx è morto, e anch’io non mi sento molto bene diceva Woody Allen citando Ionesco.
E allora vaffanculo. Essendo ormai chiaro che “There is not alternative”, visto che nulla più conta, che la vita va a pezzi, la compagna ti lascia dopo 40 anni perchè sei insopportabile, la figlia si sposa con un uomo più vecchio di te e del tuo film politico non frega più un cazzo a nessuno, allora cambiamo anche il film: non più politico ma d’amore, e cambiamo anche la Storia, facendola andare come ci sarebbe piaciuto che andasse, inventandoci una via italiana al socialismo nata proprio dalla rivolta contro i carri sovietici in Ungheria nel 1956.
Chi se ne frega, tanto cosa cambia? La sconfitta è manifesta, la morte dietro l’angolo.
L’unica libertà è lo sberleffo: una parata felliniana con tanto di elefanti in testa, un gran ritratto di Trostzky in mezzo al corteo (con lui sarebbe andata meglio? Mah…) e gli amici di una vita con le bandiere rosse.
Siamo stati felici, adieu.

Paolo Soglia

Ps
Visto che siamo allo sberleffo finale aggiungo al post questa nostra creazione artigiana, non a caso datata 1 aprile 2019, poco prima dell’imminente pandemia.
Un omaggio deficiente che dedichiamo a Moretti, con affetto: “Strada della Morte” , pensando soprattutto a cosa direbbe sulle ciabatte rosse di Leo Gandini (le salverebbe come quelle di Aretha Franklin nei Blues Brother?).
Le recensioni sotto al film hanno fatto giustizia di quest’opera prima (qui il link).

“IL BIENNIO NERO, LO SQUADRISMO IN EMILIA-ROMAGNA 1920 /1922”

“IL BIENNIO NERO”
Lo squadrismo in Emilia-Romagna 1920/1922

Prodotto da ANPI Bologna e realizzato da Paolo Soglia e Lorenzo K. Stanzani il documentario “Il Biennio Nero” è un prodotto pensato principalmente per le scuole che tratta un periodo storico particolarmente drammatico per il nostro paese: l’ascesa del fascismo attraverso la violenza squadrista che si manifestò con particolare virulenza nel primo dopoguerra in Emilia-Romagna, una terra dove più forti e radicate erano le organizzazioni contadine e del movimento operaio.
“Il Biennio Nero” è un viaggio che una ventina di alunni delle scuole medie Guido Reni di Bologna hanno fatto in cinque città emiliano-romagnole, accompagnati costantemente dalla troupe di ripresa, incontrando in luoghi emblematici dei narratori che hanno illustrato ai ragazzi la nascita e lo sviluppo della violenza squadrista fino all’instaurarsi della dittatura. Il viaggio è suddiviso in cinque tappe tematiche:

Bologna: “Battesimo” – 1920 l’assalto squadrista per impedire l’insediamento della giunta socialista e la strage di Palazzo D’Accursio – Narratrice: Donatella Allegro
Ferrara: Egemonia” – la provincia più rossa della Regione conquistata dagli squadristi, in cui intere masse passarono armi e bagagli col fascismo – Narratore: Moni Ovadia
Forlì: “Radici” – la terra natale di Mussolini, dove tutti lo conoscevano come agitatore socialista e dove tornò da fascista con le camicie nere – Narratore: Miro Gori
Ravenna: “Capitolazione” – la presa della città nel luglio 1922 da parte di Italo Balbo e la distruzione del movimento cooperativo – Narratrice: Donatella Allegro
Parma: “Resistenza” – l’unica città che respinse gli squadristi grazie all’unità delle forze antifasciste e all’organizzazione militare degli “Arditi del Popolo” – Narratore: Bruno Stori

Le personalità individuate come narratori sono tutti attori/attrici di chiara fama: Donatella Allegro, Miro Gori, Moni Ovadia, Bruno Stori. La voce fuori campo che con l’ausilio di filmati di repertorio introduce ogni puntata è quella dello scrittore Pino Cacucci.
Le visite sono state introdotte da un lavoro di preparazione sui ragazzi per la conoscenza di quel periodo, curate dalla professoressa delle Guido Reni Marisa Vesentini e dal maestro Mirco Pieralisi.

Il filmato inizia con il percorso in pullman dei ragazzi fino al luogo di destinazione a cui segue l’incontro con il personaggio della cultura che si presenta ai ragazzi e racconta loro i fatti, raccogliendo i loro commenti e i loro sguardi mentre ascoltano la narrazione.
Realizzato come un vero e proprio road movie “Il Biennio Nero” segue il percorso di conoscenza dei ragazzi, coglie le loro espressioni, le loro domande e il formarsi giorno per giorno in loro della consapevolezza sulla drammaticità di quel periodo.
Raccolto in un filmato unico della durata di circa un’ora e un quarto “Biennio Nero” è stato realizzato col contributo della Regione Emilia-Romagna – bando Memoria del ‘900, e con la partecipazione a sostegno del progetto del Comune di Bologna, Comune di Parma, Unipol e Cosepuri.

Il documentario viene reso disponibile per tutte le scuole, gratuitamente, sull’apposita piattaforma on line Vimeo: potete vederlo qui in streaming o cliccare sul video per accedere a Vimeo e scaricarlo.

Scheda del documentario

“IL BIENNIO NERO”
Lo squadrismo in Emilia-Romagna 1920/1922 (75′, Italia 2023)

Promotore: ANPI comitato Provinciale di Bologna
Produzione: Orso Rosso Film
Autore: Paolo Soglia
Regia e montaggio: Lorenzo K. Stanzani
Fotografia: Andrea Dal Pian
Musiche: Gian Luca “Boka” Gaiba
Fonico: Francesco Piazza
Docente per la formazione: Mirco Pieralisi
Foto di scena: Penelope Soglia
Editing audio: Diego Schiavo
Produttore esecutivo: Paolo Soglia
Grafiche: Carlo Zucchini
Narratori: Donatella Allegro, Miro Gori, Moni Ovadia, Bruno Stori
Voce fuori campo: Pino Cacucci
Per le scuole Guido Reni di Bologna:

Dirigente scolastica Dott.ssa Claudia Giaquinto
Coordinatrice referente del progetto per la scuola Reni prof. Marisa Vesentini
Docenti accompagnatrici: prof. Grazia Coccia, prof. Monica Gorreri, prof. Paola Zagatti, prof. Linda Antonacci, prof. Claudia Merighi.
Le ragazze e i ragazzi delle classi seconde e terze: Giulio Bachiocchi, Piero Bonazzi, Maria Campi Tarquini, Maria Rebecca Caramelli, Ginevra Cera, Vittoria Chiccoli, Lorenzo Daga, Giada Di Liddo, Azzurra Fiano, Mattia Giambanco, Laura Giro, Jiayi Hu, Alma Lombardo, Ludovica Parenti, Anna Pedaci, Lucrezia Rago, Marta Toschi, Nina Trapani, Nowfal Uddin, Alessia Zorzi.

Con il contributo di:
Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna, Comune di Parma, Unipol, Cosepuri.

Al sindaco Matteo Lepore su toponomastica e “risse”

Dobbiamo tornare, nostro malgrado, sulla discussione in merito all’aggiornamento della toponomastica della Resistenza, innescata dalla decisione del Comune di Bologna di eliminare dalle targhe la parola “Patriota”.

Com’è noto abbiamo espresso dissenso, non tanto per la proclamata volontà di uniformare le definizioni, ma per la modalità adottata, che di fatto elimina un tratto distintivo e fondante della Resistenza e così facendo altera la memoria.
Se sicuramente i partigiani erano patrioti, non tutti i patrioti che contribuirono alla lotta di Liberazione erano partigiani: i soldati italiani che hanno resistito a Cefalonia, a Rodi, a Porta San Paolo a Roma, non erano partigiani. Così come non lo erano i seicentomila militari italiani che hanno rifiutato la collaborazione con la Germania nazista e la repubblica neofascista italiana, ma la cui scelta è stata determinante nella storia della Resistenza italiana e nel definirne l’orizzonte di legittimità internazionale nella costruzione della nuova Italia democratica.
Nell’immediato dopoguerra si provvide ai riconoscimenti che distinsero tra “Partigiani”, coloro i quali avevano partecipato ad un minimo di azioni armate, e “Patrioti e Benemeriti”, coloro i quali, in gradi diversi avevano partecipato e reso possibile la guerra partigiana, ad esempio costruendone le rete logistica e di informazione. Anche essi hanno rischiato la vita come e a volte più dei combattenti stessi, perché il nemico – i fascisti e nazisti – si accaniva sui civili sospettati di sostegno alla Resistenza. Ma non erano partigiani in senso stretto.
Abbiamo poi ricordato come nella Resistenza le parole “Patria” e “Patriota” fossero fondamentali per riconoscersi in quella lotta: GAP è l’acronimo di Gruppi di Azione Patriottica; è stato fatto notare che gli stessi alleati, con gli attestati rilasciati alla fine del conflitto dal Generale Alexander – comandante in capo delle forze armate alleate in Italia – certificassero il contributo dei partigiani ringraziando a nome dei Popoli delle Nazioni Unite coloro che avevano “combattuto il nemico sui campi di battaglia, militando nei ranghi dei Patrioti”.

Sul piano politico abbiamo avvertito del rischio che comporta escludere dall’esperienza storica della Resistenza il termine patriota, abbandonandolo di fatto nella mani di chi ha un’idea di patria non corrispondente a quella elaborata dalle culture antifasciste e inverata nella Costituzione.
E non è un caso che le destre neofasciste abbiano infatti applaudito subito alla notizia, vedendosi riconosciuta l’esclusiva del termine “Patriota” laddove nella Resistenza venivano definiti altresì “Traditori della Patria”.
Infine abbiamo anche lanciato delle proposte: aggiornare le definizioni senza eliminare parole ma semmai aggiungendone, per maggiore chiarezza.

Ci ha dunque assai sorpreso leggere l’intervista pubblicata dal “Domani” lo scorso 14 marzo al Sindaco Matteo Lepore, che interpellato anche su questa materia semplifica dicendo che “per noi (ma “noi” chi?) da sempre partigiano è sinonimo di patriota” e infine critica chi dissente liquidando la questione cosi: “il caso che è nato fa pensare che ci sia solo una gran voglia di rissa”.
Basta dunque dissentire anche vagamente dal Comune su una questione di cultura e di rilevanza storica che si è accusati di volere la rissa? E chi ne sono i fautori? Alessandrini, Soglia? Giornalisti autorevoli e di indubbia cultura antifascista come Massimo Gramellini, Sergio Rizzo, Luca Bottura, Marianna Aprile? O ancora Corrado Augias?
Ci auguriamo quindi che le parole del Sindaco siano frutto solo di una avventata espressione dal sen fuggita.

In conclusione, Signor Sindaco: partecipare ad una discussione sulla cultura storica e sul valore civico del patrimonio culturale della città non è partecipare a una rissa, né tanto meno avere una “gran voglia” di scatenarla.

Luca Alessandrini e Paolo Soglia

Meglio una “brutta” pace di qualsiasi “sacra” e sporca guerra

Mentre la propaganda impazza e le artiglierie sparano si “festeggia” il primo anno di guerra.
E’ una guerra imperiale: tra l’impero occidentale e quello euroasiatico, combattuta sul campo di battaglia ucraino. Siamo regrediti al 1914, anno in cui gli imperi europei diedero inizio al più grande macello della storia, combattuto con i mezzi più micidiali, compresi i gas asfissianti; in teoria per la conquista del solito pezzo di terra, in realtà per affermare la propria egemonia sugli imperi avversari.
A far saltare il banco però ci fu nel 1917 la Rivoluzione russa: i Soviet presero il potere al grido di: “Terra ai contadini, fabbriche agli operai e via dalla guerra imperialista subito”.
All’epoca già tutti i partiti aderenti all’internazionale socialista erano contrari alla guerra imperialista: cosa aveva da guadagnarci un proletario contadino italiano a sparare o farsi ammazzare da un proletario e contadino tedesco o slavo? Nulla.
Eppure ne morirono milioni.
Perchè la retorica della guerra imperialista fa leva sul nazionalismo e sull’opposizione degli assoluti: il bene contro il male.
E’ così anche ora nelle rispettive propagande: in Occidente è “La libertà contro la barbarie” in Russia è “La difesa del sacro suolo contro l’offensiva dell’impero occidentale che vuole la distruzione della Russia”. Nulla di nuovo.
Partiamo dunque dalle menzogne nostrane, a cominciare dal campo di battaglia, l’Ucraina.
E’ un paese libero e democratico? No. Anche il più guerrafondaio deve ammettere che in Ucraina dal 2014 la russofobia si è fatta regime. In Ucraina i partiti di opposizione sono stati sciolti, i media indipendenti o non allineati chiusi e i critici e gli oppositori del regime vengono incarcerati o uccisi.
E’ la guerra, si dirà. In Russia Putin fa di peggio, si dirà. Quindi? E’ la libertà contro la barbarie? No, è la guerra imperialista.
Purtroppo non c’è all’orizzonte nessuna Rivoluzione del 1917 a scompaginare il tavolo e l’allineamento alle ragioni della guerra, sul piano politico, è pressochè unanime, a destra come a sinistra. Non a livello popolare, dove le ragioni della guerra sono ben più fragili e messe in discussione, ma il blocco del potere in Europa come in America è granitico e chi non è per la guerra sta col nemico, senza sfumature.

Ciniche cancellerie e governi non fanno che urlare: “Guerra, armi, vittoria!” dall’una e dall’altra parte della trincea.
Migliaia di giovani soldati imbevuti di propaganda nazionalista vengono macellati ogni giorno, i civili ucraini sacrificati sull’altare della “immancabile vittoria”.
E ignobili e corrotte consorterie intanto fanno affari d’oro e ingrassano mettendo le mani sulla montagna di miliardi spesi per la guerra.
Miliardi che non ci sono mai, per ragioni di bilancio, per salvaguardare il lavoro, la sanità e il pianeta, ma che magicamente appaiono inesauribili ad ogni guerra.
Personalmente, da socialista e libertario sono radicalmente oppositore della guerra imperialista: Via dalla guerra, subito! A qualunque costo.
Parlare di trattativa di pace in queste condizioni è assurdo, l’unica possibilità è la tregua: la cristallizzazione del campo come si fece in Corea sul 38° parallelo, situazione in cui formalmente la guerra è aperta ma i cannoni tacciono.

Paolo Soglia